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di Antonio Boscato
La parola dialogo è molto usata e perfino abusata; oggi tutti “dialogano”: le civiltà devono dialogare, si sente la mancanza di dialogo tra le generazioni, le forze politiche sono sempre alla ricerca di un dialogo, religione e società civile non si confrontano più ma dialogano, grandi autori hanno titolato con la parola Dialogo/Dialoghi opere importanti... e potremmo continuare. Eppure, a ben guardare, quello che per molti è la Parola di Dio, e il testo scritto più importante per l'umanità, non appare, a una prima lettura, come un esempio di stile dialogico (“In verità, in verità vi dico…”), al contrario di quell'altra grande opera che fonda il pensiero occidentale: i Dialoghi di Platone.
E a scuola si dialoga?
Detto così sembra un’osservazione ovvia: nella scuola tutto il giorno insegnanti ed alunni si incontrano, comunicano, parlano tra di loro e, quindi, in qualche modo “dialogano". Nel nostro caso dobbiamo aggiungere per chiarezza al termine gli aggettivi formativo, educativo. Il luogo del dialogo per eccellenza è sicuramente la scuola: non c'è trasmissione del sapere se non si stabiliscono canali di comunicazione che sfociano sempre in varie forme di dialogo.
Al contrario io sostengo la tesi che la dialogicità, cioè un insieme di atteggiamenti mentali e culturali che orientano la persona nella comunicazione e determinano uno stile comunicativo, è spesso la grande assente della scuola. Siccome questo a prima vista può apparire un paradosso, è necessario che io dimostri la validità della mia tesi, svolgendo una serie di argomentazioni. Lo farò in primo luogo spiegando bene cosa intendo per “dialogicità”, in secondo luogo analizzando le condizioni nelle quali il rapporto educativo si fonda e si realizza oggi.
“Dialogicità” è, in senso platonico, non tanto un modo di “trasmettere” ma di “creare” un sapere. Viene quì a proposito da citare la polemica di Platone contro i sofisti nella contrapposizione tra scrittura e oralità. Pur limitato nella sua prospettiva, Platone contestava al libro, su cui i sofisti fondavano il loro sapere, l’incapacità di dare risposte a domande. Se, leggendo un libro, a un lettore sorgono domande, costui non ha occasione, mezzi per trovare risposte, può solo seguire il filo del discorso che è già pre-fissato.
Osservazione: la lezione frontale, la spiegazione attraverso il libro di testo, l'interrogazione, le verifiche scritte e orali sono tutte attività scolastiche, sia ben chiaro indispensabili, nelle quali, solitamente si trasmette conoscenza ma non sono previste domande; in altre parole: si tende a prescindere dall'alunno (anche se tutte le indicazioni pedagogiche insistono sulla sua centralità), in quanto obiettivi e conoscenze sono già pre-indicati dalle indicazioni ministeriali e dai programmi e predisposti dai manuali adottati. Questo già esclude, come spiegheremo, una fondamentale, anzi la prima, condizione del dialogo.
Completamente diverso è invece il clima in cui si svolge il “dialogo orale”: domande a cui corrispondono risposte che devono essere immediate, concrete, esaurienti ed esattamente rispondenti alla necessità di chi le pone. Non soltanto. Chi è chiamato a dare risposta a qualche domanda deve valutarne la portata che gli perviene (da dove nasce, è frutto di curiosità, voglia di divagare, oppure risponde a un preciso interesse; quali implicazione e quali attese comporta...?). Il rispondente, sulla base delle attese dell'interpellante, deve decidere il taglio delle sue risposte, costruendo un processo mentale complesso sulla base degli input che riceve. Ovviamente, ogni risposta è una sfida alla sua intelligenza e capacità, costringendolo a costruire sempre qualcosa di nuovo, non standardizzato. Può scoprire che le risposte, che a lui sembravano del tutto soddisfacenti e complete, non vengono comprese e ciò lo può mettere in crisi.
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