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Job.Scuola.Idee

raccolta di idee e strumenti per una DIDATTICA moderna

ALLA RICERCA DEL BENE (E DI PERCHÉ FARLO)[1]


Come per la parola male, anche la parola bene può essere utilizzata in contesti che le conferiscono un valore diverso. Posso dire: mi sento bene; gli affari mi vanno bene; sto bene ...
Pure qui osserviamo che la parola bene viene utilizzata come avverbio. E se la usassimo come sostantivo?

Fare bene” è chiaro nel suo significato, anche se la frase deve essere completata da un oggetto (fare beni i compiti è intuitivo. Fare bene a scuola non dice molto, è generico). In questo caso si dice che bisogna dare concretezza al discorso. “Fare bene+complemento oggetto di solito comporta dei vantaggi: se faccio bene il mio lavoro sono stimato, posso avere degli avanzamenti... certamente ciò richiede impegno, capacità, buona volontà; se poi uno ha una spinta, anche le difficoltà possono essere uno stimolo...

“Fare del bene” non è così facile. Indica un insieme di azioni (qualche volta nelle epigrafi è scritto: “Non fiori ma opere di bene”) che immediatamente non sembrano attrarre.

Comprende nella sua stessa parola il sacrificarsi, non pensare solo a se stessi ma dedicare tempo, energia, anche risorse personali ed economiche per gli altri. Mi dedico agli altri ma sottraggo qualcosa a me stesso. Soprattutto, e qui sta la differenza con l’espressione fare bene, non sembra comportare vantaggi. C'è un detto che riassume: “fare del bene non paga”.

Non è detto ad esempio che chi s’impegna a fare azioni di bene sia capito e abbia l’approvazione dal prossimo (magari solo al funerale le sue buone azioni sono ricordate, ma questo vale per tutti i defunti, come si dice: de mortuis nisi bonum).

Addirittura fare una buona azione qualche volta può essere è pericoloso come è successo recentemente a una guida alpina francese che rischia 5 anni di carcere per avere salvato da sicura morte una famiglia di profughi sulle montagne innevate. È un caso, e non è raro, in cui nasce un conflitto tra la legge e la coscienza.

La domanda che potrebbe venire spontanea è perciò questa: d’accordo, io non farei del male ad alcuno, ma perché devo preoccuparmi di fare il bene? Devo pensare a me stesso che di preoccupazione ne ho tante... Ma, soprattutto, se sto nel mio guscio sto bene. Sto tranquillo senza essere toccato da tanti problemi e sofferenza che stanno nel mondo vicino e lontano da me... alla fine, cattivi, buoni indifferenti è sempre la stessa storia, sempre là si va a finire... che differenza c’è?

Ecco quindi una bella domanda: perché fare il bene? e, poi, che cosa è il bene?

Quante volte i genitori falliscono del tutto nei confronti dei figli perché hanno agito, sbagliando, per il loro bene! Di solito la risposta non è difficile: hanno operato in un certo modo perché hanno imposto una loro visione di quello che doveva essere il bene dal loro punto di vista per i figli! Ma non succede solo in famiglia, tutte le dittature hanno questo in comune: che ciò che è bene secondo il capo è il bene di tutti coloro sui quali essi esercitano il loro controllo.

Cosa è il bene?

Sembrerebbe una domanda facilina, ma poi quando si vanno a verificare le risposte, emergono tante interpretazioni. Se il bene lo vediamo come il contrario di male (di cui abbiamo parlato nei capitoli precedenti), possiamo concludere che se il male produce sofferenza in noi stessi, negli altri, nell’ambiente… all’opposto potremmo dire che il bene e tutto ciò che produce invece felicità.

E siccome felicità è una parola molto generica molto vaga potremmo dire che felicità vuol dire star bene, facendo star bene gli altri.

È soprattutto questa la traccia che seguiremo in questo capitolo.

Spesso il concetto di bene applicato all’agire di una persona si identifica con quello di "azione buona", come nell'espressione "fare del bene", equivalente a "compiere buone azioni", cioè azioni che rispondano a regole morali che abbiamo fatto nostri per gli insegnamenti ricevuti e diventati parte del nostro pensiero, del nostro intimo, o che accettiamo come leggi, regole da osservare.

La dottrina, che si propone di stabilire criteri razionali per esprimere un giudizio di valore riguardo l'agire umano, è l'etica, ovvero la morale.

Riprendiamo il nostro ragionamento. Da un punto di vista generale (ma anche generico), col termine di "bene" si indica tutto ciò che agli individui appare desiderabile e tale che possa essere considerato come fine ultimo da raggiungere nella propria esistenza.

La più scontata potrebbe essere: è bene tutto ciò che appare desiderabile come poter acquistare un oggetto molto desiderato.

È bene tutto ciò che mi piace e che desidero, come il male è tutto ciò che voglio evitare. Se diventare ricco è un bene che io voglio raggiungere, diventare “tanto” ricco può essere la scopo della mia vita è questo per me potrebbe essere la felicità.

In questo caso felicità sarebbe l’aver raggiunto l’appaagamento di tutti i miei desideri. Ma siccome noi non ci accontentiamo mai e, soddisfatti i nostri desideri, ne nascono degli altri, molto probabilmente la felicità non la raggiungeremo mai.

Allora precisiamo la domanda, non cosa è il bene (generico: per un terrorista potrebbe significare uccidere una persona solo perché è di una religione diversa): fare del bene vuol dire produrre, creare qualcosa che ha certi effetti al di fuori di me, e questi effetti sono positivi, fanno star bene altre persone migliorano quello che la mia azione va a toccare.

Poter acquistare un oggetto desiderato può avere un effetto in me, ma non produce modificazioni all'esterno, da questo punto di vista non ci interessa per il momento.

Fare bene “fare il bene”.

Non è un gioco di parole. Ci sono persone che s’impegnano non per “fare bene” tutto ciò che si fa normalmente, il che di solito comporta anche dei vantaggi, ma “far il bene” vuol dire fare fatica come ogni volta che ci si prende un impegno. Ha un costo, se non altro perché si va contro la corrente che oggi è predominante nel senso comune.

Ci sono persone che sembrano pre-disposte a fare del bene, cioè a fare buone azioni, sono sempre pronte a buttarsi appena vedono una necessità. Insomma per loro fare il bene è facile. Addirittura ci sono persone che per gli altri, per fare loro del bene mettono a rischio la loro vita. Sono le persone che poi sono indicate come “eroi” ma, soprattutto perché sono uniche, le loro azioni sono eccezionali.

Ci sono poi potremmo dire delle categorie che, nell’opinione comune, sembrano designate a fare il bene, ad esempio ci si attende che i preti siano sempre pronti a farsi carico dei problemi della gente, se non altro per ascoltarla (azione buona che spesso è anche un’azione difficile da mettere in pratica!) e, quindi, quando si scopre che un prete si comporta male, oppure anche come una persona qualsiasi, le sue azioni giudicate non buone hanno una risonanza negativa maggiore.

Nell’opinione comune c’è il sentimento che oggi ci sia al mondo molto più male che bene. La conseguenza è che la gente è triste, pessimista, crede che le cose vadano sempre peggio… ma soprattutto scoraggiata: “Perché devo impegnarmi quando tutto va a rotoli, che speranza ho che il mio intervento possa alla fine servire?”

Ma è proprio così? Bisogna guardare alla realtà di ogni giorno con intelligenza. Riflettendo, non possiamo dirlo perché mentre il male fa sempre notizia, come una tempesta che si abbatte, fa danni e quindi finisce nei giornali e se ne parla a lungo, il bene scorre tranquillo come un ruscello che defluisce appena percettibile nell’alveo di un torrente che non si prosciuga mai e perciò fa notizia solo per i poeti.

Essere buoni conviene? Sia ben chiaro sul non fare il male siamo tutti d’accordo, ma sulla necessità, anzi sull’obbligo per un uomo di fare il bene siamo sicuri che siamo ci troveremmo tutti a concordare?

“Fare del bene” non fa (automaticamente) “stare bene”[2]

Siccome tutti almeno una volta abbiamo fatto delle buone azioni, come le valutiamo dopo? Ci sentiamo meglio? Forse se abbiamo il riscontro, la riconoscenza della persona beneficata. Succede però che dopo aver fatto una buona azione verso un compagno questi la dimentichi subito e questo mi fa soffrire tanto che potrebbe succedere che quasi quasi mi sono pentito…non se lo meritava che io…

Per fare del bene per fare il ben, cioè per fare azioni di bene, è necessaria non solo la generica e occasionale volontà, il momento in cui mi sento buono perché sperimento un particolare momento di “esaltazione” perché le cose mi vanno bene, o una attesa di qualche forma di ricompensa, ma una spinta interiore che dia la forza, la costanza e soprattutto il coraggio dell’impegno. Diciamo quindi che “fare buone azioni richiede fatica. La si supera e la si accetta solo se si ha una interiore motivazione.

Partiamo da questa convinzione: l’uomo per la sua natura è predisposto a fare il bene. Quasi sempre, salvo particolari eccezioni, se è libero da indottrinamenti, se è libero, sa riconoscere se una azione e buona. Però nella vita di ogni girono succede qualcosa d’altro.

Ovidio, un poeta latino, diceva una frase che è stata ripresa molte volte in molti scrittori e pensatori con termini molto simili: “video bona, proboque, peiora sequor”, cioè io rivedo una mia azione, con la ragione la giudico come buona, ma non solo non l’ho fatta, anzi purtroppo spesso faccio l’azione opposta.

Allora qui nasce la grande questione: perché questa opposizione tra il giudicare e il fare?

Perché l’uomo pur conoscendo il bene molto spesso non lo compie? E non parliamo delle persone malvage, quelle che, a giudicarle da fuori, sembra veramente fare solo gravi azioni cattive.

Il “fare del male” (è una questione a cui si sono dedicati tanti saggi, filosofi, uomini di pensiero a partire, secondo Platone, il primo vero grande filosofo greco Socrate. Ed è una domanda che torna sempre anche oggi quando noi assistiamo a fatti gravi di grandi sofferenze che vengono fatte da uomini su altri uomini, senza pietà, compassione, ma anche con il gusto di fare il male! Ne abbiamo fatto qualche cenno nei capitoli precedenti.

Ma la stessa domanda la si può porre a chi abbia fatto una buona azione, magari in maniera eroica.

Noi cerchiamo invece delle risposte semplici (cioè non teoriche, astratte) e allora forse la strada da percorrere è un’altra: interrogare una persona che ha compiuto, un’azione cattiva (non è facile, ma immaginiamo che una autorità, un genitore, un insegnante, un giudica potrebbe farlo…) oppure un gesto particolarmente bello e chiederle perché l’abbia fatta (ricerca della motivazione).

Come capita negli interrogatori, l’indagato ha la facoltà di non rispondere, però potrebbe anche dare delle risposte giustificando (motivando) il suo comportamento. Perché ha fatto quella (buona/cattiva) azione? Che cosa lo ha spinto? Cosa si aspettava? Intanto chiedere fino a che punto fosse consapevole (l’ha fatto istintivamente o ci ha riflettuto?) o quali risultati si aspettasse. Potrebbe rispondere che non lo sapeva (molto difficile!) che non ci ha pensato o tentare di dare altre risposte...

Una azione buona lo è sempre?

Dipende, comunque non allo stesso modo.

Prendiamo come esempio un’azione che senz’altro viene considerata “buona” e analizziamola in dettaglio.

Per strada mi si avvicina un mendicante che mi chiede l’elemosina. Come mi comporto?

  • Potrei fingere di non vederlo e tirare dritto.
  • Posso dargli una moneta e me lo levo d’intorno.

Fino a questo punto la mia risposta alla sua richiesta di aiuto come la giudico? Né buona né cattiva, come qualità (cioè il valore) dell’azione è assolutamente inesistente.

  • Posso sentire un sentimento di compassione e dargli i soldi che ho in tasca (tanto adesso non mi servono…).

La mia azione è diventata buona perché ho provato un sentimento e ciò che io do nasce da una spinta di vicinanza. Questo è qualcosa che spontaneamente o per abitudine mi riesce abbastanza facile.

  • Potrei però dargli i soldi che ho in tasca e così rinuncio a quel gadget che pensavo di comperarmi. Qui si capisce che la buona azione ha fatto un passo avanti come qualità.
  • Addirittura ciò non potrebbe bastarmi e allora inizio un dialogo con lui, chiedo notizie perché è così caduto in povertà da essere costretto a chiedere l’elemosina. Posso chiedere se sono in grado di fare qualcosa, interessare un ente assistenziale...

Se uno ha letto il Vangelo trova nella parabola del Buon Samaritano l’ideale di una azione buona che esprime il massima della qualità.

È chiaro che la qualità della mia azione e quindi il valore della mia buona azione è e molto diversa. In fondo dare una moneta non costa molto, farsi carico di un problema di un estraneo richiede molto di più.

Una buona azione non è tale se sono obbligato a farla.

Cioè deve essere un’azione libera.

Immaginiamo (ma immaginiamo soltanto perché non capiterà mai) che una mamma dica al bambino: “una parte della somma di denaro che ti ha regalato la nonna lo destiniamo alla fondazione per la ricerca sul cancro”. Il bambino lo fa (lo deve fare per non dare un dispiacere alla mamma) ma con quale convinzione? È una idea che egli condivide oppure acconsente a quello che la mamma vorrebbe facesse?

Di questa buona azione il bambino non ha nessun merito perché qualche altro l’ha fatta per lui (e in realtà non ha merito neppure la mamma perché i soldi destinata alla buona azione non ce li ha messi lei!)

Posso aggiungere perciò che la prima qualità di una buona azione è libera, ma soprattutto gratuita. Il mio più caro amici mi chiede di passargli i compiti per casa e io lo faccio volentieri perché so che poi lui a sua volta mi farà usare la sua collezione di video giochi.

Mi aspetto perciò qualcosa che ricambi l’essere stato utile per lui. Il compagno più antipatico della classe non farà mai questa richiesta, ma se capitasse, come mi comporterei?

Fare del bene non vuol dire fare solo buone azioni

Fare del bene non vuol dire fare solo buone azioni.

Noi pensiamo alle azioni come gesti che vengono fatti e che possono essere visti e controllati per cui è abbastanza facile di solito dare un giudizio cioè se vedo un’azione fatta da una persona è facile che la giudichi buona o cattiva.

Ma il mio giudizio è sempre giusto? Vediamo un po’: io vedo una persona che fa una importante somma di denaro a un povero. Considero quella persona un “buono”? Probabilmente sì. Oggi però vediamo che le buone azioni sono anche criticate perché si pensa che i risultati non siano buoni. Noi pensiamo (e magari abbiamo ragione) che il gesto del ricco di dare l’elemosina sia una forma di ostentazione della propria ricchezza, magari perché poi che se ne parli in giro... E poi magari quella persona non avrebbe bisogno di una elemosina ma di un aiuto a trovare un lavoro e che quindi quelli siano soldi buttati... ecc.

Salvare gli emigranti in mare va bene ma poi chi li mantiene? Quando si è un po’ scombussolato in mezzo alla grande babele delle opinioni contrastanti circa il valore di una azione io adotterei questo tipo di ragionamento: se io fossi in grado e fossi richiesto di fare una azione, come mi comporterei? Avendone la possibilità avrei fatto quella scelta o un’altra?

Da qui viene fuori una regola. La buona azione quando è fatta come scelta e impegno non come un fatto occasionale richiede un terreno da cui essa proviene, una sorgente da cui sgorga, terreno è un albero che permetta ai frutti di maturare.

La mia azione è buona se io sono buono.

Insomma, non è che uno svegliandosi all’improvviso al mattino si mette alla ricerca di fare la buona azione nella giornata. L’occasione per fare buone azioni di solito non sono ricercate ma si presentano. Bisogna perciò avere occhi per vedere le occasioni e ciò richiede pertanto un certo allenamento, attenzione e, soprattutto, predisposizione.

Per fare buone azioni occorre un animo buono insomma essere buoni, capaci di guardare attorno a se con attenzione e soprattutto con amore per le persone, per la natura per le cose. Ogni domenica mattina le vie centrali della mia città è piena di sporcizia di cicche e di rifiuti anche se non mancano i cestini raccogli rifiuti. Cosa mi fa pensare questo?

Da ciò che conclusioni traggo? Possiamo usare questa metafora

Le buone azioni sono come dei frutti attaccati a un albero, quando sono staccati al massimo sono buoni da vendere al mercato, ma se rimangono attaccati possono crescere maturare, migliorare perché ricevono linfa e nutrimento dall’albero, il quale a sua volta è ben impiantato in un terreno adatto.

Quindi con la metafora dell’albero e del frutto arriviamo a definire che una buona azione non va considerata isolata ma acquista valore vista come prodotto di una persona. Dare una moneta a un povero da parte di un ricco che ha il portafoglio pieno di banconote è certamente una buona azione in sé ma se la moneta è il sacrificio di una rinuncia, il valore ha ben altro peso.

Perciò le buone azioni sono frutto di una educazione dove famiglia, scuola, buoni esempi fin da quando si è piccoli ha la sua importanza

Non si è (quasi mai) buoni da soli

Cambia molto se una buona azione da isolata diventa progetto.  Chiariamo: una buona azione resta sempre una buona azione, almeno se la di è fatta con animo sincero, ma, ahimè, ha l’inconveniente che di solito serve a poco. C’è il rischio che diventi solo un bella cosa ma che per nulla cambi la realtà, in fondo un’azione che nessuno pensa di ricordare.

La persona che vuole fare del bene (lasciamo perdere ora il termine buone azioni, se no si pensa che siamo di fronte al bravo boy scout che deve registrare sul diario la buona azione quotidiana, ci siamo capiti) scopre che non si è (quasi mai) buoni da soli, anzi addirittura è molto difficile (sarebbe però esagerato affermare impossibile), esserlo.

Scopre cioè che non basta avere un certo comportamento verso se stesso e verso gli altri, un certo modo di vedere la realtà e ispirarsi nelle proprie azioni con coerenza con dei valori che lui ritiene ispiratori. Ma da qui discende anche un compito: che è importante fare diventare buoni, cioè impegnarsi perché viviamo in una comunità, nessun uomo è una isola.

In fondo vale il principio che si sconfigge il male solo sostituendolo con il bene.

L’uomo buono da solo può essere un eroe (o un martire) ma, salvo casi eccezionali che si presentano imprevisti, non è questo a cui siamo chiamati. Siamo chiamati a lavorare assieme per costruire il bene, diciamolo con parole piatte: sostituire il male con il bene.

I personaggi che oggi ricordiamo nella storia (non importa se buoni o cattivi) non lo sono per quello che sono stati ma per quello che hanno costruito (il bene e, purtroppo, anche il male) e che hanno lasciato dopo di se. E sempre in qualche modo hanno costruito assieme.

Quando si scopre questo può nascere un progetto: una costruzione lunga, faticosa, impegnativa, ma appassionante, ma da fare insieme a tanti che condividono valori comuni, la stessa visione del futuro e mettono insieme le comuni risorse.

Ma qui entriamo in un campo nuovo a cui magari potremo dedicare un altro percorso di “Appunti”.

 

[1] Nota preliminare. Richiamo qui quanto già espresso precedentemente: quando noi parliamo qui di bene o di male non intendiamo di fare un discorso teorico, filosofico, ma molto concretamente di azioni che per il fatto di essere compiute comportano un giudizio etico: cioè sono azioni buone, cattive o indifferenti a seconda degli effetti che producono.

[2] E, purtroppo, non è detto che uno che abbia fatto del male ad altri, poi si senta profondamente umiliato e interiormente sofferente!


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