di Antonio Boscato
Ci sono diversi modi di celebrare un avvenimento: in primo luogo, ricordare, ricostruire, rievocare un fatto a cui abbiamo assistito. Da questo punto di vista lo possono fare in pochi. Tutti coloro che hanno meno di cinquant'anni, o sono giunti in città dopo quella data, quel fatto non possono dire di ricordarlo o averlo vissuto. Quarant'anni non è un piccolo arco di tempo. Perché poi ricordare un fatto quarant'anni dopo quando l'abbiamo ricordato poco nel ventesimo o trentesimo anniversario?
Ricordare può essere sinonimo di “ricostruire”, aggiungere dettagli a un avvenimento trascorso per riportarlo alla completezza dello svolgersi dei fatti: cosa è veramente successo, quali gli attori, quali motivazioni, le conseguenze scaturite da esso... Ma per fare questo dobbiamo ritenere l’avvenimento particolarmente importante da meritare l’attenzione dello storico. Difficilmente accade per un fatto occasionale per quanto eclatante.
Ricordare un anniversario può esprimere l'intenzione di “celebrarlo” nel senso letterale del termine, quando quella data viene considerata il punto di arrivo di una serie di conquiste sindacali e politiche e perciò ha un significato che va al di là dell'ambito strettamente locale per diventare evento significativamente importante di un percorso storico generazionale. È l’interpretazione che hanno dato di quel giorno i partiti della sinistra del tempo e della CGIL secondo i quali quel giorno: “l'unità operaia-popolare ha spezzato il sistema feudale di Marzotto e ha fondato un sistema di forze nuove che ha visto legati i commercianti, gli studenti e i contadini alla classe sfruttata dei lavoratori della fabbrica; la città nuova, la Valdagno democratica nasce lì”. Ma il 19 aprile non è stato assolutamente questo. Quando c'è folla ed esasperazione può succedere di tutto, magari se qualche testa calda, venuta da fuori (e sinceramente quel giorno qualche testa calda - i famosi sociologi di Trento? – c’era), fa da miccia. Va detto però che anche oggi vi è difficoltà ad accettare il fatto che a scatenare e a partecipare alla violenza siano stati cittadini e operai della fabbrica. L’idea dell’intervento esterno fu sostenuta dall’Azienda e dagli stessi sindacati per alleggerire la posizione di quarantatre valdagnesi che nella serata del 19 aprile furono arrestati e portati in carcere a Padova. Per dimostrare la tesi dello “scontro di classe” sostenuta dalla CGIL e dai partiti di sinistra di allora ci vogliono ben altri riscontri[1].
Ricordare può essere infine una spinta per fare confronti: come eravamo allora? Come siamo oggi? Quale percorso ha compiuto in un arco di tempo significativo e denso di avvenimenti la nostra comunità? Questo, forse, lo stimolo più suggestivo: quanto il passato, che noi fotografiamo in un certo momento storico, agisce in comportamenti, in mentalità e sensibilità ancora attuali? Per giustificare ciò sottolineo che ancora si avverte, in parte della nostra gente più anziana (e che, quindi, ricorda), un sentimento di rimpianto per quella città di un tempo ricca di opportunità e di qualificati servizi che la ponevano ad esempio in tutta la regione. In questo caso vuol dire che intendiamo fare la storia di un periodo partendo da fatti di cronaca per capire le trasformazioni di un tessuto economico e sociale in un territorio.
19 aprile: non un giorno, ma un anno
Ricordare il 19 aprile 1968 può essere tutto questo, ma va ricordato che non è solo il giorno particolarmente drammatico dell'abbattimento della statua di Gaetano Marzotto e delle devastazioni del quartiere di Oltreagno. È la data più impressionante, ma non la più importante, di una vertenza lunga un anno (dal marzo 1968 al febbraio del 1969) che ha veramente messo in crisi l’esistenza stessa della fabbrica. Tutto quello che è successo, in fondo, si riduce a questo: la reazione delle maestranze (che ha portato al coinvolgimento de Sindacati prima e della Città poi) a un importante passaggio generazionale gestito in maniera sbagliata, si passa in pochi anni da una gestione paternalistica del vecchio Paron a quella unicamente efficientista del figlio Giannino. La nuova dirigenza, da lui designata, intendeva ristrutturare tutta la catena del lavoro, senza tenere in alcun conto una serie di aspetti umani, psicologici, relazionali storicamente radicati, che formavano il quadro da cui non si poteva assolutamente prescindere; essa ha voluto imporre una realtà industriale del tutto estranea a Valdagno. Il momento più drammatico si ebbe nei 30 giorni di occupazione nel febbraio dell'anno successivo (dal 24 gennaio 1969 al 25 febbraio dello stesso anno). Tale occupazione ebbe una eco vastissima in tutta la stampa nazionale ma, soprattutto, da questa vertenza si avviò la netta separazione tra la città e la fabbrica fino ad allora del tutto coincidenti (“Valdagno è Marzotto e Marzotto è Valdagno” era una espressione comunemente usata).
Cosa è successo dopo?
Un profondo cambiamento. A partire da quella vertenza cambiarono molto i rapporti di lavoro in Azienda ma, allo stesso tempo, Città e presenza aziendale nella società valdagnese escono fortemente modificate nel loro rapporto; le due realtà si allontanano progressivamente fino ad oggi, quando Marzotto a Valdagno è soltanto un segno della storia della città del secolo scorso (il nome delle strade, la titolazione delle scuole…), ma non più l’unica presenza industriale del territorio, anche se una certa manodopera – ma non più del 10% di quella di 50-60 anni fa - è ancora occupata nelle divisioni del gruppo. Soprattutto, nella grandissima maggioranza della popolazione non c’è più un legame emotivo profondo, forse, ancora presente nella fascia più anziana della popolazione.
Che cosa è oggi la città?
Possiamo affermare che, sciolta dallo stretto legame con la fabbrica, la città non ha saputo far maturare quei fermenti che le avrebbero consentito di costruirsi come comunità creativa.
Quando si pensa con una certa nostalgia a una mitica età dell’oro significa riconoscere che la città non è cresciuta, è rimasta psicologicamente dipendente da qualcuno (il padrone della fabbrica, il deputato locale, il sindaco-manager…). Le risorse disponibili sono state utilizzate per l’abbellimento dell’esistente, non per realizzare (perché non sono mai state nemmeno pensate) iniziative nuove. Le due uniche grandi realizzazioni (traforo e ospedale) sono progetti vecchi di trent’anni fa. Il traforo, la cui realizzazione non è stata accompagnata da una capacità progettuale forte né da una visione nuova dei rapporti di Valdagno con il resto del territorio della provincia e del suo ruolo futuro, non è servito a rompere l’isolamento della città.
La fase che, dopo gli avvenimenti del 68/69, ha visto crescere ed affermarsi un nuovo gruppo dirigente che ha interpretato con consapevolezza una nuova fase politico-amministrativa restituendo al Comune e alla parte pubblica un ruolo che in precedenza era stato coperto dalla fabbrica, si è troppo presto esaurita e la città, anziché cercare al proprio interno nuove energie ed esprimere direttamente una propria rappresentanza in sede istituzionale, è ritornata alla delega ed ha ricercato nuovamente all’interno della fabbrica (che ormai non c’era più) la soluzione ai propri problemi. È ritornata in auge ed ha acceso nuovi entusiasmi l’idea di una pianificazione dei problemi affidata ad un demiurgo esterno al quale affidare le sorti della città. Questo ha impedito l’emergere e l’affermarsi di una classe dirigente indigena in grado di assumersi le proprie responsabilità e di progettare il futuro della propria città coinvolgendo le varie espressioni della società civile senza delegare ad altri le proprie responsabilità e poteri decisionali in bianco.
La mancanza di attrattività dei servizi presenti in città, la totale mancanza di strutture ricettive, unitamente all’esodo massiccio dell’élite culturale verso opportunità più appaganti, hanno segnato il declino della città, che economicamente vive di un dignitoso artigianato e che vede un massiccio esodo di gran parte della propria forza lavoro verso centri più dinamici e produttivi. Ben pochi s’impegnano in una attività politica, dal momento che ogni scelta amministrativa viene accolta passivamente senza alcun dibattito, anzi nell’indifferenza della comunità, quando non siano toccati interessi particolari.
Che la città stia vivendo un progressivo decadimento non può essere negato da alcuno. Non può che essere così quando si chiude un ciclo storico, se non s’innestano nuove dinamiche. Non è vero che sia bello vivere a Valdagno, come si vuol far credere perché è una città fondamentalmente triste, ripiegata su se stessa, anche sotto l’aspetto religioso, anche se non mancano iniziative private peraltro circoscritte. Noi vogliamo fare integrazione con Schio; ma che motivi possono avere i nostri vicini per venire da noi?
Ricordare perché?
La Marzotto se ne è andata, ma ha lasciato notevoli risorse inutilizzate. Degli spazi, anzitutto. La grande fabbrica di Valdagno è in gran parte vuota. È possibile che pubblico e privato insieme pensino a qualcosa di nuovo su questo problema? Per dove passa il rilancio delle scuole superiori? È soltanto questione di edifici da utilizzare meglio?
Ricordare, ricostruire (celebrare?) i quarant’anni dal 19 aprile può essere perciò l’occasione per fare i conti con la nostra storia, aprire un dibattito, come si dice, a 360 gradi guardandoci dentro con sincerità e coraggio. Ma forse sarebbe meglio distaccarci anche dal mito del 19 aprile, alle cui gesta hanno contribuito più le spinte esterne che le iniziative delle forze valdagnesi e recuperare le motivazioni forti che hanno sostenuto l’azione più coordinata e consapevole della maestranze della Marzotto, del Sindacato e dell’Amministrazione Comunale nelle vicende del 1969 per ricercare nel tessuto civile della città (non più all’interno della fabbrica) la volontà, le energie e le spinte per progettare, senza ripiegamenti su un passato, che non tornerà più, il futuro di Valdagno.
Ciò sarà possibile solo se ci sarà la capacità di ripensare non solo al ruolo di Valdagno-città ma di vedere e capire il contesto territoriale e socio-economico all’interno del quale Valdagno è inserita. Ciò significa interagire con gli altri Comuni della Vallata, con Montecchio Maggiore, con la valle di Chiampo, con Schio, Malo e gli altri Comuni confinanti.
E significa anche riagganciare i rapporti con la Provincia, la Regione, e con quanti hanno compiti programmatori e decisionali che possono coinvolgere Valdagno e la vallata.
[1] Tutta la vicenda e la pubblicistica ad essa legata sono state da me ricostruite nel volume: A Valdagno cade un monumento. 1968-1969 gli anni difficili della Marzotto, Valdagno, 1983
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