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Qualche (provvisoria) conclusione.

Ci avviamo verso la fine di questa seconda serie di riflessioni fissando alcuni punti che possono già essere considerati delle prime conclusioni.

Abbiamo concordato (si spera!) Che l’uomo non è obbligato a fare il male ma, se lo fa, prima c’è stata una scelta, magari per ignoranza o fatta senza riflettere. Se l’uomo per qualche motivo ha fatto un’azione cattiva ma non ha scelto di farla, non ne è responsabile.

Noi qui la parola “male” la usiamo nel senso di azione fatta da noi e che produce sofferenza in noi stessi, sugli altri e anche dove lui agendo provochiamo delle modificazioni.

Anche se usiamo la parola “male” molto spesso, non riteniamo facciano parte espressioni termini come: delusione, tristezza… (“L’esito di questa interrogazione “andata male “mi fa male”) però se l’esito dipende dal fatto che prima ho fatto la scelta di chattare con gli amici e di non prepararmi, allora, a fondamento del mio insuccesso c’è stata una “scelta sbagliata”. Di questa noi siamo responsabili, cioè dobbiamo rendere conto, rispondere.

Finora abbiamo parlato di azioni cattive e, quindi, di coloro che operano il male, producono cioè sofferenza. Adesso spostiamo la nostra attenzione dall’altra parte, cioè dalla parte di coloro che il male lo subiscono, sono vittime del male. Insomma, nella presenza di azioni cattive ci sono gli attori e i coloro che le subiscono (perseguitati)

Quali possibilità hanno costoro e come potrebbero comportarsi nel momento in cui si trovano proprio da questa parte sfortunata?

Un primo atteggiamento, istintivo direi naturale, della vittima potrebbe essere quello di comportarsi allo stesso maniera, non soltanto ricorrendo a qualcuno che lo possa proteggere denunciando il fatto, ma passando egli stesso dalla parte del male e reagendo con le stesse armi, magari cercando alleati dello stesso tipo per rafforzarsi. È così che nascono le “gangs”, che si affermano quando alcuni vogliono avere la prevalenza e il controllo del territorio su altri che hanno la stessa intenzione. Succede, quindi, che in caso di una rissa violenta alla fine non si sa più bene chi aveva iniziato ed è il vero colpevole della situazione. Addirittura può succedere che la vittima diventi l’aggressore e venga sanzionata per questo.

Se non si pensa di avere capacità di risposta al male, talvolta la via preferita è la fuga, nascondersi, cercare di non farsi notare, o, addirittura, accettare di “essere la vittima”. Questo è il sistema più facile perché chi è cattivo lo diventi ancora di più, perché rafforza il sentimento di sentirsi dominatore. Il film del ciclo Fantozzi, pur esageratissimi, tuttavia danno un’idea di cosa vuol dire essere vittima.

C’è poi l’atteggiamento di chi, pur non essendo vittima diretta di qualche provocazione malvagia, guardandosi attorno giunge alla convinzione in tutto l’ambiente e il mondo che lo circonda predomina la cattiveria, l’egoismo, l’invidia, l’ipocrisia eccetera, che non ci sono persone altruiste, ma solo interessate a trarre dei vantaggi anche senza violenza ma con modi subdoli, magari con l’inganno…

Costui porta dentro di sé un pessimismo, una tristezza che alla fine lo conduce a pensare che: tanto il mondo va così, non c’è niente da fare… In questo modo, e di pur potendo fare qualcosa, come si dice “si tira fuori”, sta per conto suo cercando di evitare il più possibile conflitti rogne. È il caso di una persona che possiamo chiamare “pecora”: sta nel gruppo cerca solo di non farsi notare per non essere preso di mira…

Infine, pur mettendo in atto tutte le forme di legittima difesa e di solidarietà contro il male presente attorno a sé, bisogna cambiare prospettiva: guardarsi attorno per vedere anche se qualcuno fa azioni buone, se è fedele, altruista, sa darti una mano eccetera.

Di conseguenza, dopo avere parlato tanto del male, forse è giunto il momento di puntare a parlare del bene, non avverbio ma indicante azioni buone, fatte bene, che producono bene attorno a sé.


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