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Appunti per un compito psicopedagogico nel tempo scolastico 

di Antonio Boscato

Premessa

Tesi: perché per svolgere un discorso su scuola ed educazione integrale io decido di partire dal tema della paura? Devo dare ragione di ciò. La paura non è un fatto privato, come può essere una tonsillite, una influenza, ma è una delle condizioni comuni in cui vive la gente oggi, per cui è anche un fatto importante la sua conoscenza e, per quanto possibile, una sua gestione; è quindi un problema che tocca l’educazione.

Quello che genericamente viene indicato come disagio che si presenta in tante forme, ha un elemento unificante comune: il fatto che noi in ogni istante, fase della nostra vita siamo soggetti a tante forme di paura, esistenziali: del futuro, morte, malattie… paura di perdere l’amore  oppure occasionali: angoscia di perdere il lavoro…, poi ci sono paure che provengono direttamente dal contesto in cui viviamo: paura della delinquenza, ad esempio, i cambiamenti che avvengono nel quartiere, molti atteggiamenti e comportamenti che ci sembrano pericolosi da parte della gente, il traffico in città (da qui nasce la grande (?)  questione se lasciare i ragazzi fino a 14 anni andare a casa e muoversi per la città da soli)…  Ma è un elenco che, per quanto lungo, non sarebbe mai completo.

Queste situazioni di ansia di stress, che ci permeano la vita, vengono poi amplificate dai giornali, alcuni dei quali veramente specializzati in questo campo, dai talk show e dalle discussioni del bar, quindi siamo anche contagiati da paure potenziali che non nascono da un pericolo imminente reale.

È vero la paura (come insieme di paure) era presente anche nel passato, anzi possiamo dire che le ragioni per avere paura, il senso di insicurezza potevano avere più fondamento che oggi. Forse, se ne aveva una percezione diversa: proprio perché la qualità della vita era scadente, il senso di precarietà accentuato, le attese minori, in fondo il problema era mettere pane e companatico in tavola alla sera, c’era meno tempo di preoccuparsi oltre. Potremmo supporre che fosse diffuso un senso di fatalismo nell’accettazione della realtà? Infine, di ciò che avveniva nel mondo si sapeva poco e la vita si rinchiudeva negli ambiti ristretti del proprio paese e nelle immediate vicinanze da dove potevano giungere notizie.

Oggi invece noi allarghiamo lo sguardo su tutto il pianeta, ci rendiamo conto dei grandi problemi che sta attraversando la nostra epoca e, di conseguenza, l’insicurezza, l’incertezza sono molto più forti che nel passato. Ci sono paure che oggi sono più avvertite: la paura dell’insuccesso, della precarietà, della perdita di un proprio ruolo, di esser emarginati, la consapevolezza che il progresso non è solo progressivo ma aumentano i rischi, tutto ciò ha certamente una influenza sul nostro “modo di essere”. Non sono quindi solo avvertite le minacce dirette fisiche che si presentavano soprattutto nel passato, ma anche quelle che investono oggi il proprio io profondo.


 

Partendo da queste osservazioni, mi chiedo, di fronte a tanti problemi di grande attualità e di motivata insicurezza nei confronti del futuro che talvolta sconvolgono o terrorizzano le persone, se la scuola (o meglio, qualsiasi ambito educativo, ma ovviamente la scuola per prima) abbia un compito, attraverso quali strumenti, tempi e spazi possa offrire aiuto a gestire le proprie paure, per raggiungere un equilibrio fondato sulla consapevolezza della realtà.

A tutti gli effetti questo mi sembra un compito psicopedagogico che di solito è affidato alle competenze di una figura appositamente preparata, ma quasi mai concretamente presente, come lo psicologo.

Può essere utile l’intervento mirato dell’esperto in qualche occasione, per esempio nel corso di educazione sessuale. Ma il compito di fornire un supporto psicologico dovrebbe essere qualcosa che si svolge in ogni attività didattica, la quale ha il compito di fornire dei contenuti adeguati, aiutare l’alunno nella sua crescita e nel suo apprendimento culturale, ma allo stesso tempo, se necessario, non dovrebbe sottrarsi ad un compito anche di sostegno psicologico.

L’insegnante infatti non è soltanto il comunicatore, il trasmettitore di conoscenze ma l’accompagnatore di crescita e di maturazione culturale che si sviluppano bene solo se vengono svolte in un terreno opportunamente coltivato; questo presuppone necessariamente una partecipazione emotiva.

Ansia e Paura

Ritengo importante a questo punto distinguere tra due termini che qualche volta possono essere confusi: ansia e paura. Non credo sia possibile confondere timidezza con paura, anche se questa può apparire con manifestazioni simili, ma è la radice che è diversa.

L’ansia, che ci accompagna quotidianamente in tanti momenti, ha un valore positivo, inquieta, spinge ad affrontarla ed è una fedele compagna delle nostra vita, ogni volta che dobbiamo provare esperienze nuove; una percezione di cui siamo perfettamente consapevoli. L’ansia è ciò che dà sapore all’azione, si affianca a ogni progetto o sogno. L’ansia è attesa.

La paura è diversa. Si manifesta quando uno avverte di essere di fronte a un pericolo, talvolta reale, talvolta immaginario. Possiamo definirla un’ansia esasperata? No. La paura è qualcosa che viviamo quando qualcosa nel mondo attorno a noi ci appare pericoloso, minaccia noi stessi ed è incontrollabile. Io posso essere in ansia quando aspetto il risultato di un esame clinico. Cado vittima della paura se il risultato dell’esame comunica la presenza di una malattia grave.

Posso avere paura di volare, solo il pensiero della possibilità mi getta nel panico, oppure essere in ansia perché viaggio in aereo per la prima volta, ma non ho paura dell’aereo. Sono due modi di vivere l’approccio all’aereo. La paura dell’aereo in casi estremi può diventare fobia e impedire di poter viaggiare. L’ansia è transitoria, legata a un momento, la paura permane e scava dentro, determina modi di essere e di comportarsi. Passato il momento o l’accadimento che ci rende ansiosi, ci sentiamo più liberi e gioiosi, la paura invece è perennemente presente in qualche modo.

Posso aiutare uno a superare l’ansia tranquillizzandolo, è molto più complicato aiutarlo a vincere la paura, magari anche con l’ausilio di tecniche o strumenti sofisticati. Con l’ansia si può convivere tranquillamente, con la paura anche, ma non tranquillamente e, certamente, essa porta a uno scadimento della qualità di vita.

Quando qui ci riferiamo perciò alla paura non parliamo di ansia/ansie ma di paura/paure. La distinzione deve essere chiara. Nel contesto di questo discorso, parliamo solo di quelle paure che impediscono di diventare persone libere, ostacolano il decidere, provocano incapacità di assumersi responsabilità. Come nella parabola dei talenti del Vangelo, non portano a mettere a frutto qualità e potenzialità ma le seppelliscono rendendole inutili e infruttuose, mentre la gestione positiva dell’ansia e la vittoria sulle paure fanno parte di quel processo di crescita verso la libertà e il primo passo nella ricerca personale della verità.


 

La paura compagna di vita

Il problema è che non possiamo sfuggire alle paure, possiamo invece affrontarle. Questo è il compito pedagogico. A ben vedere siamo tutti toccati da mille diverse paure, alcune ce le portiamo dentro dalla nascita e sono legate al nostro carattere, altre si innestano a causa di spiacevoli esperienze, altre sono introdotte dal vivere quotidiano non facile e scontato particolarmente nel nostro tempo. Possiamo affermare con sicurezza che nessuno è completamente libero da più di una forma di paura.

Tante paure appartengono al vivere in un determinato tempo storico, così se la chiesa tanti secoli fa invitava i fedeli a pregare: “a peste, fame et bello libera nos Domine” (le tre grandi paure storiche che caratterizzavano il medioevo e i secoli successivi) con quali litanie le sostituiremmo oggi per essere liberati dalle “nostre” paure?

Dare paura, creare paura

Ma a noi in questo momento interessa pedagogicamente un altro tipo di paura, che possiamo chiamare “indotta”, cioè tutte quelle che non nascono spontaneamente in qualche occasione ma sono costruite all’esterno ad arte e spesso con scopi ben precisi.

Immaginiamo un possibile esempio: un bambino può essere veramente spaventato se la maestra dell’asilo gli racconta una favola nella quale agiscono streghe cattive e mostri.

L’induzione della paura attraverso l’utilizzo della minaccia, associata pure a forme di violenza nel rapporto educativo di una volta (ora non sarebbero giustamente più tollerate) era esercitata per ottenere l’obbedienza e l’adesione a determinati comportamenti. Oggi queste forme hanno perso efficacia non solo per una maturazione dell’educatore ma perché effettivamente fanno meno paura, dal momento che ci sono maggiori difese. Così va detto che una volta, nell’educazione religiosa e nella pretesa dell’osservanza dei comandamenti, si usava la minaccia di castighi da parte di Dio e, attraverso l’esercizio della paura, si mirava ad un controllo della comunità. Indubbiamente, nel passato la paura di castighi era lo strumento fondamentale per dare un preciso indirizzo ai comportamenti e alla crescita di una persona.

Oggi, talvolta in modo rozzo, talaltra con strumenti ben più raffinati, è sempre attraverso forme di paura che chi è al potere lo mantiene e lo esercita.

E quindi, tra le paure indotte collochiamo quelle che vengono create ad arte da chi possiede mezzi di suggestione e di controllo con scopi precisi, ad esempio quello di diffondere le proprie idee, per rafforzare un proprio potere.

In questo caso la paura, proprio per l’efficacia che hanno i mezzi di comunicazione oggi, assume i caratteri di un’epidemia che si diffonde molto rapidamente se non ci sono anticorpi che la blocchino, si sa infatti che influenze ed epidemie intaccano soprattutto le persone più deboli e fragili.

Ora il mezzo di diffusione più praticato è un uso strumentale e suggestivo del linguaggio.

Ne abbiamo un classico esempio proprio in questi tempi: il fenomeno dell’arrivo non previsto di decine di migliaia di migranti è sicuramente un problema che richiede soluzione e interventi adeguati, ma se questo fatto diventa “invasione” perché così viene trasmesso e percepito attraverso una suggestiva comunicazione da parte di media o di forze politiche, è chiaro che le soluzioni non diventano più praticabili, la paura avanza e può diventare incontrollabile creando problemi sociali.

Anche il pessimismo odierno ormai così generale è frutto di una forma di paura: “tutti sono ladri”; “gli amici ti fregano sempre”; “non puoi fidarti di nessuno” sono gli input che quotidianamente ci giungono.

Se la realtà è questa, noi poveri mortali cosa possiamo farci? E da qui nasce la fuga dall’impegno, nel proprio privato che ci dà sicurezza (forse) e dalla partecipazione e dalla voglia di dare il proprio contributo.

Ma la realtà è proprio questa? O è quella che ti fanno credere? Che cosa mi dice la mia esperienza personale?

Combattere contro le paure è fondamentale compito

Dell’uomo che vuole vivere in pienezza la propria umanità.

Abbiamo paura quando ci sentiamo minacciati. Se avere giustamente dai timori è segno di buon senso, la paura, col significato sopra indicato di paura indotta, è sempre costantemente presente e noi, se non rinunciamo in partenza, abbiamo il compito di combatterla sempre. Diventa un compito fondamentale perché prioritario alla crescita della persona nella libertà. È come dire che siamo sempre in una battaglia.

In fondo anche la Bibbia recita nel libro di Giobbe: “Militia est vita hominis super terram”, insomma siamo sempre in combattimento. Non sempre con nemici esterni, per trovare un nostro posto nel mondo e difenderlo, assai più spesso con noi stessi.

Si combatte contro, ma si combatte per. Contro le proprie incertezze, laddove possibile con i nostri limiti, e per la propria crescita.

La prima reazione, come quando ci sentiamo assaliti, è quella di fuggire. Fuggire dalla paura è la reazione istintiva solo che raramente è la soluzione risolutiva. Una forma di fuga è quella di evitare una prova, richiudendosi nel proprio guscio protetto: lasciare agli altri, starsene fuori dai guai…

Infatti, fin dai primi anni di vita ci giungono segnali di avvertimento ad allontanarsi: “stai attento, non allontanarti, è pericoloso... attento a come ti giudicano gli altri...”. In questo caso la paura appartiene perlopiù alla prudenza dell’adulto, anche perché il bambino non si rende conto dei pericoli.

Ovviamente nessuno con un minimo di assennatezza può dire a un bambino: “vai, coraggio, buttati!”. Ma in ogni caso bisognerà che prima o poi gradualmente l’invito al coraggio si sostituisca alla raccomandazione della prudenza (anche se talvolta l’apprensività del genitore tende a spostare sempre in avanti questo momento). È chiaro che nelle raccomandazioni degli adulti non c’è soltanto l’invito alla prudenza, ma spesso queste contengono un invito ad assumere certi comportamenti adeguati a quelli che l’adulto ritiene più convenienti.

E quindi giunge il momento in cui uno deve affrontare tante situazioni della realtà che possono presentarsi come un mondo oscuro, ignoto, che genera ansia.

Ogni timore interno od esterno che entri in noi richiede da parte nostra delle risposte. La prima tentazione, di fronte a una difficoltà con cui si accompagna sempre una dose di paura (di non farcela) sarebbe quella di rinunciare, la soluzione più facile se dipendesse da noi, ma assai spesso non possiamo sfuggire alla prova, per cui alla fine ci si deve buttare; abbiamo scelto di buttarci in modo consapevole, cioè sapendo che cosa vogliamo ottenere?


 

Addestramento al combattimento

Per vincere la battaglia contro la/le paura/paure; questo è più facilmente realizzabile nella misura in cui all’interno dell’individuo sono presenti motivazioni, idealità (quella che comunemente chiamiamo “forza di carattere”) che si contrappongono alla istintiva paura.

La paura infatti conta molto sull’ irrazionale ed è pure strana. Uno potrebbe avere una così forte paura di volare da non riuscire a salire su un aereo in tutta la sua vita e dimostrare una sconsiderata incoscienza nel guidare in modo folle la propria auto.

Forza di carattere: un termine generico che pochic’è poco ma forse si deve partire dalla considerazione del ruolo che svolge la virtù che noi chiamiamo “coraggio”.

Ecco una bella citazione che viene riferita a Goethe: “Un giorno la paura bussò alla porta, il coraggio andò ad aprire e non c’era nessuno”. Gli fa eco un equivalente proverbio tedesco: “Bussarono alla porta, andai ad aprire e non era il diavolo”.

I due detti sembrano uguali ma c’è una piccola differenza. Nella prima c’è una assenza, la seconda sottintende una scoperta quindi anche la sorpresa.

Già però, come diceva don Abbondio al suo cardinale che lo rimprovera: “il coraggio uno non se lo può dare”. È proprio così? Che, poi, il nostro curato tanto pauroso del tutto non lo si è dimostrato, perché quando viene sorpreso dai due promessi accompagnati dai testimoni pronti a un matrimonio notturno, con grande coraggio dimostrato da una rapidità fulminea, li blocca, per cui vale sottolineare che don Abbondio è pauroso o coraggioso a seconda di chi ha davanti (prepotenti o persone che non possono rappresentare una minaccia...).

Senza proprio crocefiggere don Abbondio che a me poi risulta anche simpatico, una risposta è che i coraggiosi non sono sempre solo gli eroi a cui viene dedicata una strada o un monumento, ma tutti coloro che hanno saputo osare, è che quindi hanno vinto la naturale paura affrontando i rischi dell’ignoto. E’ ovvio che qui ci sono tante persone comuni di cui nessun libro di storia parla.

Infatti, a pensarci bene, ci sono paure reali (che corrispondono a pericoli reali con i quali è molto opportuno valutare le nostre possibilità) e paure dell’ignoto, cioè di un terreno nuovo ancora non esplorato dall’esperienza di una persona.

Il coraggio richiama lo sforzo di andare in battaglia. È quello che si chiede soprattutto a uno che si deve buttare nella mischia. La paura di fronte a un pericolo reale va considerata, è rispettata. Sarebbe da incoscienti semplicemente il buttarsi. Non deve mancare la prudenza, ma senza coraggio non si esce di casa.

Ci sono le paure che appartengono a una certa fase della vita, caratterizzanti il momento in cui nell’individuo diventa ansiogena la risposta che si accompagna alle varie domande della crescita. Sono le paure che caratterizzano il mondo giovanile: il futuro ambiguo e oscuro del nostro tempo, il pessimismo diffuso investe soprattutto loro. I ragazzi che crescono hanno paura? All’esterno sembrano spavaldi e sicuri, sappiamo che non è così. Proprio il fatto di dover diventare grandi è nel profondo la loro grande paura. Quanto è presente in maniera inconscia nello studente non tanto la paura immediata dell’interrogazione ma la paura della delusione e del fallimento nel rapporto col mondo sociale e le aspettative che esso chiede?

Ed è qui che la scuola ha un compito ben definito come istituzione e come comunità: dare speranza.

Tempi luoghi e palestre dell’addestramento al combattimento

Usando sempre la metafora del combattimento esistono sempre un luogo e un tempo privilegiati nei quali il combattente, fornito di forza e coraggio, può addestrarsi al combattimento? Io li vedo entrambi nella scuola.

Cosa può fare la scuola in questo campo, quale il compito educativo da parte di ogni educatore e della scuola come comunità?

Non entro nei dettagli di programmi, tecniche, contenuti, mi limito a un discorso di tipo generale che si addice a qualsiasi tipo di scuola.

La guida al superamento della paura, momento fondamentale nel percorso psicopedagogico ed educativo, non può essere esclusa dal normale intervento scolastico costruito sia come provvedimento specialistico occasionale, ma soprattutto come accompagnamento quotidiano.

Richiamo qui che quando parlo di paura ho sempre sullo sfondo quella che ho definito la paura indotta e che quindi, parlando di superamento della paura, intendo soprattutto un percorso di ricerca di libertà da tanti condizionamenti e di verità circa la vera natura delle cose.

Partiamo dal concordare che il tema enunciato è fondante per la funzione primaria della scuola, la quale, oltre ad essere luogo di trasmissioni di conoscenze e di addestramento a competenze, è pure il luogo della formazione del futuro.

Il percorso psicopedagogico di liberazione dalla paura segue una serie di tappe ben precise.

Il primo è riconoscere la paura; di cosa ho paura? Il nemico si guarda in fronte, non gli si volta le spalle. Essa va svelata: di che cosa ho paura, perché ho paura? Semplificando: “Perché ho paura di quell’insegnante?”, “Perché ho paura di stringere una amicizia con quella compagna?”

Il passo successivo porta alla razionalizzazione della paura, cioè la sua ridimensione attraverso il confronto con la realtà. Razionalizzare vuol dire usare la ragione superando la prima impressione cioè controllando l’emotività.  (Sempre semplificando: “quali gesti, azioni da parte di quell’insegnante hanno creato in me paura?”; “Come mai i comportamenti e i gesti di quella compagna mi appaiono difficili da comprendere?”…)

Riscoprire quello che uno è nella sua realtà, andare oltre le apparenze, superare le prime impressioni, questa è la prima regola per la pratica dell’intelligenza (etimologicamente “intus-ire”).  Il terzo passaggio, ed è proprio la fase dell’addestramento, è la volontà di superare quella determinata paura attraverso una serie di prove limitate ma che segnano passi successivi nel suo superamento, un quasi compito per casa, volendo rimanere in ambito scolastico.

Ma i tre processi per poter essere realizzati richiedono che sia presente il dialogo, cioè una comunicazione tra persone e momenti di incontro di sostegno. È fondamentale quindi che il clima della scuola sia realizzato da un personale che abbia diritto a uno stile di rapporto non autoritario ma dialogico.


 

Ma concretamente come può essere ciò realizzato all’interno della scuola?

Citerò in via eccezionale la mia esperienza passata. Il mio ricordo di alunno delle medie mi porta a richiamare insegnanti bravi appunto “nell’insegnare” che richiedevano diligenza, impegno e attitudine allo studio, ma da essi non ho avuto nessun aiuto per superare le incertezze e le difficoltà non solo scolastiche, ma di rapporto con l’ambiente che nascevano in alcune fasi della mia crescita. Per cui il mio ricordo del ciclo scolastico delle medie, pur superato con facilità, rimane nel complesso sgradito non nei confronti della singola persona, ma nel clima che io percepivo attorno a me. Forse oggi la situazione può essere cambiata, ma quanto?

Io credo che si possa affrontare il tema partendo da una pars destruens (secondo la metodologia socratica o baconiana, non importa).

Una semplice domanda: alla scuola vengono destinate quantità eccezionali di risorse economiche e finanziarie. Gli alunni vivono a scuola per 30-35 ore alla settimana, e spesso si portano a casa compiti ulteriori da svolgere.

Siamo ora sicuri che tutto ciò che viene insegnato/appreso a scuola sia effettivamente utile? Serva cioè alla formazione culturale e professionale dell’utente o non ci siano retaggi di materie e contenuti superati, pleonastici, ma di scarsa o addirittura nulla utilità? Noi conserviamo delle tradizioni senza mai tuttavia verificarle con metodo critico. Talvolta gli alunni nel loro linguaggio dicono che la scuola insegna cosa sorpassate. Hanno sempre torto?

 I valori che essa trasmette sono forse tradizionali, appartenenti a un glorioso passato, ma non più rispondenti alle necessità di un mondo in fortissima trasformazione. È mai stata condotta una verifica da esperti o da chi si preoccupa di “fare riforme” sulla reale riforma e non soltanto tentativi di adeguamento o risposte parziali? Di tante riforme condotte qui da noi a partire dalla fine degli anni 60, quali sono state le vere “riforme” nel senso etimologico del termine?  Sì perché il termine è sinonimo di cambiamento profondo quasi una rivoluzione. Riforma o è rivoluzione o evoluzione sostanziale o non lo è. Riformare vuol dire convertire, non adeguare, pensare al futuro e non aggiustare guardando all’insieme come non toccabile.

Ancora, tutto il tempo trascorso a scuola, quasi tutte le risorse si svolgono in attività e svolgimento di programmi con metodologie e pratiche già precostituite in cui c’è poco spazio per la novità e la creazione.

D’altra parte non è detto che il docente, pur svolgendo con cura il programma del proprio corso, proprio per la concentrazione di tante materie e di attività, possa svolgere il proprio insegnamento in modo approfondito. La superficialità dell’insegnamento, e non il suo approfondimento, è forse il limite più grosso della nostra scuola.

Si potrebbe fare molto di più e meglio, forse, semplificando il numero delle materie, articolando l’orario in modo più efficace soprattutto dando una certa libertà  all’insegnante in modo che possa scoprire la propria capacità creativa.

Esemplificando (banalmente): se pure oggi abolissimo una materia (penso alle medie all’educazione tecnica, così come è svolta oggi), non è detto che si debba licenziare l’insegnante, semmai dovremmo convertirlo (o meglio dovrebbe convertirsi egli stesso) in una funzione nuova, rivoluzionando la sua materia, anche, se necessario, allontanandosi dal programma prefissato.

Essere, in parte, liberi dal programma non è detto che sia una cosa negativa. Se ne potrebbe discutere.

Viene denunciato il fatto che oggi gli insegnanti sono tenuti a prefigurare (ma da chi poi?) non in generale, ma per ogni unità didattica, obiettivi, metodologie, verifiche... Ma tutto questo serve poi a dare consapevolezza all’insegnante dell’efficacia del proprio lavoro? 

In altre parole, siamo sicuri che tutto ciò che oggi viene proposto come irrinunciabile (nel passato ogni insegnante riteneva la propria materia come la più importante) lo sia veramente?

Che cosa dell’insegnamento proposto nelle varie scuole è effettivamente utile, o non piuttosto riempitivo?

Negli anni ‘60 Illich sosteneva che la scuola era funzionale al potere, perché costruiva conformismo e l’omologazione dell’uomo a una dimensione (Marcuse). Oggi non potrebbe darsi che la scuola desse solo un minimo contributo alla costruzione di una persona pienamente consapevole delle proprie capacità possibilità, adeguata a svolgere uno specifico ruolo nella società?


 

Ed eccoci quindi alla pars construens

Molti sono gli aspetti formativi richiesti per l’educazione integrale di una persona a cui la scuola è chiamata a rispondere, solo per citarne alcuni: apertura mentale, capacità di comprendere la realtà, affrontare le prove…, e l’elenco può continuare.

È vero che quando studia e impara l’allievo si confronta con una pluralità di prove e di esperienze e la crescita si sviluppa quotidianamente, tuttavia ci si chiede se sia possibile, utile e magari anche necessario dare spazio ad occasioni più mirate della formazione di una autocoscienza.

Poiché qui è stato toccato il tema della gestione delle paure, guardiamo con più attenzione ad esso.

Si è detto che la paura deve essere riconosciuta, successivamente affrontata. Il primo compito è per l’individuo la capacità, oltre di riconoscerla, di giudicarla.

Quasi tre passaggi, si è detto, sono definibili nella misura in cui l’individuo ha le capacità di razionalizzare.

Noi usiamo molte volte termini scolastici come introduzione alla storia, corso di lingua straniera, attività di orientamento... ; perché non pensare che sia anche necessario anche un “avviamento al pensare”, come esperienza di interiorizzazione personale e di giudizi originali della realtà.

Le forme attraverso le quali possa essere realizzato questo avviamento al pensare, sia pure in forma sperimentale, dal momento che non sono organicamente previste nell’ordinamento normale, devono essere in qualche modo previste attribuendo ad esse tempi e risorse, oltre che una certa professionalità da parte di un docente, o in senso ampio un addestratore (da preferire al termine “esperto”).

Entriamo così nella formazione di avviamento all’attività di introspezione, alla luce di quel grande principio fondante il pensiero occidentale e non solo, dell’avvio del “conosci te stesso”, che torna ad essere, forse, la cosa più importante che si può fare a scuola.

Se già come avvio alla interiorizzazione il proposito è ardito ma necessario, esso si accompagna anche alla necessità di abituare a un linguaggio concreto, possibilmente non fatto di slogan con una ricchezza di linguaggio almeno un po’ superiore a quella che viene oggi usata dai ragazzi e non solo. Il ragionare dovrà essere costruito anche sulle regole logiche con cui si esprime il pensiero. Diversi anni fa ho condotto un corso di avviamento alla filosofia per un gruppo di alunni di seconda media. È stata una sperimentazione non isolata, perché attraverso le indagini in rete ho scoperto che questa è già una pratica avviata, anche diffusa e con risultati apprezzabili. Il risultato di questa esperienza è riportato nel presente sito.

Corso di filosofia per raggiungere quali obiettivi? Mi limito a un semplice elenco:

- Attraverso lo sviluppo di processi mentali, si raggiunge nel tempo una capacità di riflessione critica, che diventa anche abitudine ad una valida elaborazione di convinzioni fondate.

- La capacità di parlare ascoltare e dialogare deve essere rafforzata con l’educazione al rispetto dell’altro, discutendo anche, in modo partecipato, opinioni diverse, dimostrando di sapere correggere i propri punti di vista, o magari integrarli, rifiutando in partenza tutto quello che viene urlato con slogan e insulti, purtroppo ormai dimensioni normali di qualsiasi confronto.

- Nella scuola non si può escludere la dimensione della ricerca, che parte da una domanda e porta alla definizione di un problema. Abbiamo detto che per il superamento di paure personali si trova un forte aiuto dal sapere porre una domanda e confrontarsi con le risposte. È così che si arriva all’autocontrollo delle proprie emozioni, dello sconforto, dello scoraggiamento.


 

Ma, alla fine, si arriverà a dominare la paura?

No, la paura nelle tante forme in cui si presenta, l’abbiamo detto, sarà sempre una compagna nella propria vita. Il solo obiettivo che possiamo chiedere è di non esserne travolti, di conservare la propria capacità di azione, di non essere paralizzati nel proprio impegno, magari anche scoprire i propri limiti ed accettarli… La scuola può veramente aiutarci in questo punto ma, se non lo fa la scuola, chi potrà sostituirsi ad essa?