Questo sito utilizza cookie tecnici. Sono inoltre installati cookie tecnici di terze parti. Cliccando sul pulsante Accetto oppure continuando la navigazione del sito, l'utente accetta l'utilizzo di tutti i cookie.
Per maggiori informazioni, anche in merito alla disattivazione, è possibile consultare l'informativa cookie completa.

di Antonio Boscato

Dico una cosa ovvia: la comunicazione nel processo educativo è il perno è il fondamento di ogni trasmissione del sapere. Ovviamente, viene subito in mente la comunicazione tra insegnante e alunno. Eppure, intuitivamente, comprendiamo che altrettanto fondamentale è la comunicazione tra la scuola e la famiglia.

 

È vero, nelle programmazioni didattiche si da sempre un adeguato spazio al tema della comunicazione tra scuole famiglia, ma questa poi rimane poco sviluppata, e l’assenza dello svolgimento reale si giustifica di volta in volta con le difficoltà di avere una relazione, un rapporto efficace con i genitori troppo impegnati, spesso oberati da problemi di lavoro e personali, mancanti anche di strumenti di base per il dialogo.
Se andiamo a vedere cosa succede nella prassi scolastica, vediamo che la famiglia è coinvolta direttamente dalla scuola soltanto in pochi e occasionali momenti.
La convocazione per la comunicazione di solito avviene, quando la scuola convoca la famiglia per qualche problema di rendimento o disciplinare. Se le cose vanno bene, l’intervento dei genitori non è sollecitato.
Il dialogo insegnante-genitori è individuale, in pratica legata alla materia, e si svolge in qualche incontro rituale (il famoso e forse inutile visitone), oppure è saltuario: si va dall’insegnante quando si può per limiti d’orario, di lavoro rigidità di ricevimento dell’insegnante.

IN conclusione, la scuola investe i genitori di qualche richiesta di collaborazione ma, se l’impegno dell’alunno procede regolarmente, tutto ciò appare quasi accessorio, al contrario, se l’alunno presenta aspetti difficili, spesso da parte del genitore convocato c’è l’allargamento delle braccia e l’affermazione: “Io ci ho provato non so cos’altro fare, veda lei!”
Ovviamente il problema non è facile e va affrontato nella sua complessità.
Quale rapporto c’è tra l’informazione ricevuta dalla scuola e il tipo di risposta che può dare un genitore? Partiamo da un’osservazione di esperienza quotidiana: di solito il genitore va dall’insegnante per “essere informato”.
Ecco un primo aspetto del problema: l’informazione è soltanto l’avvio di una comunicazione, non è la comunicazione! Quello che dovrebbe essere auspicato è che il genitore si recasse dall’insegnante già “informato”, ovviamente per discutere e analizzare gli elementi in possesso della sua informazione, in parole più semplici, ci si augura che l’informazione faccia scaturire una elaborazione, ponendo delle domande e cercando risposte a tutte e due le parti coinvolte, il che non succede quasi mai, e non può succedere, quando l’informazione ha le caratteristiche già viste della pura occasionalità.

Diverso sarebbe il caso se la comunicazione tra famiglia e scuola potesse essere costante e regolarmente aggiornata, se il genitore potesse seguire con puntuale regolarità i progressi del figlio, se potesse conseguentemente rendersi conto di ciò che sta dietro agli alti e bassi dell’andamento e fosse formulato con chiarezza qual è l’apporto che gli si richiede.
A me pare che solo in questo nuovo rapporto si può creare la condizione attesa dall’insegnante, vale a dire del coinvolgimento del genitore sui problemi educativi che la scuola ed egli stesso avanzano.
La tesi, quindi, che voglio porre è che comunicazione informata deve essere un processo costante che costruisce con regolarità il rapporto ed è perciò essa stessa un momento altamente formativo da cui non si può prescindere.
Questa nuova attesa, perché sia concretamente possibile, richiede un costante flusso di informazioni nel senso più ampio (non solo risultati di prove, interrogazioni, ma scambio il più possibile completo sul progredire educativo, culturale e scolastico dell’alunno).
Qualche esperienza di semplice scambio epistolare, già svolta in qualche classe a livello sperimentale tra insegnante e famiglia, ha rivelato che entrare in questa nuova dimensione dell’informazione è possibile e promettente.
Come sarà illustrato in questo incontro il progetto keystream non va visto come un “registro elettronico” per “informare” o, anche, per controllare esattamente quanto e quando l’insegnante interroga. Se contenesse solo i voti e i giudizi sarebbe soltanto questo, e alla fine, non sarebbe molto di più della visita, solo più frequente, del genitore a scuola, ma deve diventare uno strumento “informativo-formativo” del genitore stesso, per questo va curato e gestito da parte dell’insegnante come settore importante della sua programmazione, alla quale va dato tutto il tempo necessario.
Ovviamente, si spera, che il ritorno di questo lavoro in più sia ricambiato da risultati visibili che facilitino il suo compito. Naturalmente l’avvio spetta alla scuola o, meglio, alla buona volontà dell’insegnante. Le tecnologie ci sono, non sono costose né difficili da usare, ma il “fattore umano” (la convinzione e la scelta, quindi l’acquisizione di nuove metodologie di azione) è precedente alla conoscenza ed è irrinunciabile. Senza di questo non ci fa nulla.
Soltanto accenno ad una seconda problematica aperta: quello che riguarda l’aggiornamento dell’insegnante.



Come si aggiorna l’insegnante oggi?
Nel passato, forse qualche decennio fa, non si imparava ad insegnarne all’università, là si acquisiva il bagaglio culturale di base necessario, ma il tirocinio si svolgeva sul campo, dove l’alunno e la classe diventavano un laboratorio da dove uscivano, in più o meno tempo, degli ottimi insegnanti. Costoro, all’inizio, erano spesso supportati dall’esperienza dell’insegnante più anziano, e quindi di depositario di esperienze e di competenze. Ma questo sostegno era prezioso in una situazione dell’apprendimento e dell’istituzione abbastanza statica.
In seguito ci sono state possibilità create dall’istituzione: circa venticinque-trent’anni fa sono stati organizzati i corsi abilitanti in cui degli esperti addestravano, vale a dire abilitavano l’insegnante a svolgere la sua professione.
Dopo, alla ricerca del superamento dei famosi gradoni contrattuali, sono stati offerti aggiornamenti da un numero quanto più vario di enti fruiti dal corpo docente per acquisire crediti formativi.
Ora, basandomi sulla mia limitata esperienza, mi verrebbe da sostenere che prevalga il "fai-da-te". Secondo interessi o motivazioni personali, c’è l’insegnante “fai-da-te”, la scuola “fai-da-te” e con una precisa conseguenza: l’esperienza, la competenza acquisita difficilmente circolano, entrano in rete, diventano esperienze e patrimonio comuni di una comunità, restano limitati al gruppetto di alunni o alla classe coinvolta.
Buttando lì questo grosso problema, sia ben chiaro che non ho né soluzioni né proposte, ma un’intuizione su come debba essere affrontato, da dove si debba partire. Il tentativo più semplice è quello, magari modesto, di aprire spazi, perché le esperienze e le idee circolino.
Ecco il senso del portale “Jobscuola”, che voi trovate nella vasta rete e che è stato anzitutto un’intuizione della nostra associazione. Noi, infatti, parliamo di " aggiornamento, ma sullo stesso termine si può ampiamente discutere. Aggiornarsi vuol dire, infatti, adeguarsi a una realtà consolidata, ma se la stessa realtà è in continuo divenire, aggiornarsi è una gran bella questione. Forse, la soluzione sta nel fare esperienze e condividerle, accettando la verifica. Ci vuole perciò pazienza e umiltà, soprattutto tanta umiltà.
Io credo che non si possa oggi parlare come nel passato di “aggiornatori” e “persone da aggiornare”, siamo tutti in ricerca. Allora un discorso d’aprire e da approfondite e discutere magari in una occasione più ampia è anche questo: l’insegnante si aggiorna nel senso che si trasforma da trasmettitore di informazioni e di conoscenze a “navigatore” e guida per gli agitati labirinti della conoscenza, dando ordine gerarchicamente organizzato sulla base di regole che permangono a quella mare a di informazioni frammentate e messe sullo stesso piano, cioè " omologate " che vorrebbero essere il conoscere oggi, ma che appaiono più un insieme di dati non collegati o collegabili che una cultura e vera acquisizione di sapere.